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Redditi esigui e spese “folli”, atteggiamenti da dimenticare

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Se ne parla da tempo, ma la giurisprudenza continua ad evidenziare che i casi di contribuenti con dichiarazioni totalmente inattendibili sono oltremodo diffusi.

Appare ormai anacronistico il comportamento palesemente antieconomico, soprattutto quando nella sfera privata si manifestano ricchezze notevoli rispetto al dichiarato. Eppure le esperienze concrete dimostrano che tale basilare e semplicissimo concetto tarda ad essere recepito e metabolizzato da alcuni, che pensano ancora di vivere in una sorta di “limbo”, lontano dall’evoluzione della realtà fiscale e accertativa nostrana.

Sia chiaro, trattasi di posizioni della giurisprudenza assolutamente condivisibili e ben vengano accertamenti di tal guisa, soprattutto quando i comportamenti adottati sono a dir poco esagerati.

Il tanto invocato articolo 53 della Costituzione, baluardo insuperabile in sede accertativa, in quanto non può determinarsi un reddito sovrastimato nei confronti del contribuente, è altrettanto insuperabile in sede dichiarativa, posto che ognuno deve contribuire secondo criteri di progressività alle spese statali.

A ricordare tale assunto provvede indirettamente la Corte di Cassazione, con due recenti sentenze, la n. 24313 depositata in cancelleria il 14 novembre 2014 e la n. 24586 del 19 novembre 2014, che affrontano due casi emblematici.

La prima sentenza riguarda una contestazione di antieconomicità dei risultati conseguiti. Trattasi in particolare di un imprenditore con un reddito attestato addirittura al di sotto della soglia di povertà di 5 mila euro.

La Cassazione rimarca che nulla vieta che il contribuente possa registrare risultati non elevati o addirittura in perdita, altrimenti dovendosi disconoscere la validità delle disposizioni del Tuir che consentono l’utilizzo delle perdite fiscali. Allo stesso tempo è evidente che risultati anomali, se rapportati agli ulteriori dati dichiarati e/o emergenti dalla contabilità, consentono al fisco l’attività accertativa, concretizzandosi un’inversione dell’onere probatorio e spettando al contribuente la dimostrazione logica dei risultati dichiarati. Nel caso analizzato, invero, il riscontro delle numerose anomalie caratterizzanti il contribuente, dal reddito irrisorio dichiarato, all’anomala rotazione del magazzino, alla differente valorizzazione del costo del venduto, conduce ad un’unica conclusione possibile:sussiste una maggiore capacità contributiva, a nulla valendo la regolarità formale dei dati contabili.

Con la sentenza n. 24586 del successivo 19 novembre, invece, la Cassazione si esprime in materia di redditometro.

In tale ipotesi, potendosi attenere a quanto riportato proprio nella sentenza, a determinare l’inattendibilità del contribuente è non solo lo scarso reddito dichiarato a fronte del rilevante investimento conseguito, ma anche l’impossibilità del contribuente di far fronte al pagamento del mutuo ottenuto.

Particolari sembrano essere state le motivazioni difensive addotte: si passa da un presunto intervento di un familiare, comprovato da una semplice fotocopia di un assegno, privo di data e di ulteriore documentazione attestante il reale utilizzo dell’importo, ad un’assunta percezione di redditi all’estero, anche questi non documentati. In sincerità, a fronte di documentazione così scarna e inattendibile, sembra quasi di potersi affermare che sia andata bene la sola condanna tributaria.

Le due sentenze illustrano una verità che appare assolutamente insindacabile: non sono più tollerati simili atteggiamenti sul versante fiscale.

Ancora oggi si assiste alle prese di posizione di qualche contribuente che, appellandosi alla oggettiva oppressione fiscale, non decide soltanto una, seppur deprecabile, “ordinaria” disobbedienza (spesso e volentieri dettata dalla necessità di far quadrare i conti), ma vira verso la totale “anarchia”.

Sentirsi affermare che la pressione fiscale è elevata da parte di coloro che hanno redditi dichiarati cui corrispondono imposte pari a zero sembra essere una vera presa in giro: sicuramente la pressione fiscale è elevata, ma non per coloro che l’aggirano in toto. Allo stesso tempo, se poi lo stesso contribuente afferma che con i soldi che ha guadagnato intende farci “quel che vuole”, se da un lato appare sacrosanto, dall’altro è bene ricordare che deve trattarsi di soldi legittimi e che nel concetto di legittimità rientra anche la regolarità fiscale.

Il tutto, peraltro, dovendo anche sottolineare a tali persone che simili atteggiamenti non solo non sono tollerati, ma sono anche (per fortuna) oggetto di facili riscontri e controlli, appartenendo a miti falsissimi le dicerie da bar, secondo cui è sufficiente invocare l’intervento di un familiare e tutto si risolve.

Sul tema, la giurisprudenza da tempo è chiara: il familiare non solo deve avere solide capacità per intervenire, ma deve anche fare ciò con modalità tracciata. E la semplice produzione di una fotocopia di un assegno mai incassato è, ovviamente, carta straccia. Forse è il caso che anche questi “contribuenti” (si fa per dire) cambino atteggiamento.

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