La sentenza n. 25100 della Corte di Cassazione, depositata in cancelleria il 26 novembre 2014, affronta in maniera dettagliata, peraltro richiamando altri precedenti giurisprudenziali, due tematiche molto delicate e diffuse:
- La validità della ricostruzione della percentuale di ricarico ancorata ai dati emergenti dalla contabilità del contribuente, soprattutto se determinata in larga parte mediante l’applicazione di una media ponderata riferita ad un campione significativo dei prodotti dell’azienda;
- L’indeducibilità del costo sostenuto per una sponsorizzazione di fatto “non inerente” all’attività aziendale, in quanto effettuata a vantaggio di una attività sportiva (nel caso, autovetture impegnate in corse di racing), con “visibilità” del marchio in zone geografiche estere (come la Croazia e l’Austria), del tutto distanti dall’ambito commerciale dell’azienda, limitato alle province di Bergamo e Brescia.
Per quanto concerne la ricostruzione della percentuale di ricarico è anzitutto possibile fare un parallelo della decisione in commento con quanto rappresentato nella sentenza n.25093 della medesima Corte di Cassazione depositata in pari data. In tale giudicato, la Suprema Corte ha bocciato la ricostruzione dei ricavi conseguiti da un ristorante sulla base del c.d. “caffettometro”, ossia il numero dei caffè serviti alla clientela. Si intuisce dalla motivazione che secondo l’organo giudicante non è contestabile la valutazione del giudice della CTR, secondo cui nel caso specifico il presunto impiego del caffè non rappresentauna presunzione grave, precisa e concordante atta a sostenere l’avviso di accertamento. Il richiamo di detta sentenza permette di evidenziare che quando la ricostruzione è aleatoria (nel caso di specie, tra l’altro, l’amministrazione finanziaria non aveva compiutamente dimostrato l’impiego del caffè e soprattutto non aveva considerato che nell’ambito della ristorazione lo stesso è a volte offerto a fine pasto, è sicuramente destinato all’autoconsumo ed è impiegato per la realizzazione di dolci e altri prodotti), l’accertamento è destinato a sgonfiarsi.
Di contro, il caso esaminato dalla sentenza n. 25100 appare esattamente opposto, essendosi in presenza di una ricostruzione minuziosa della media ponderata applicata dal contribuente. Rilevano i supremi giudici che: “(…) l’affidabilità logica della metodologia seguita promana dalla minuziosa indicazione da parte dell’Ufficio, e già in sede di accesso dei verificatori, dei criteri di calcolo della media ponderata, il cui riferimento – per la gran parte dei prodotti merceologicamente trattati e classificati in azienda – è diretto alla pratica seguita dallo stesso imprenditore destinatario dell’accertamento e per classi di merce, mentre per i prodotti residui la media, continuando ad essere desunta dai punti di ricarico aziendale spalmato sull’intera merce, assicura il rispetto, del tutto disatteso nella pronuncia impugnata, del più prudente indirizzo di legittimità in materia”. Dopo aver richiamato alcuni precedenti giurisprudenziali, la conclusione è la seguente: “(…) la CTR ha del tutto trascurato che la media ponderale applicata dall’Ufficio era ancora più prudente di quella che, alle citate condizioni, consentirebbe le predette rettifiche, facendo essa riferimento (…) proprio agli standards di ricalcolo (desunti dal sistema della formazione dei prezzi) interni all’azienda stessa(…)”.
In termini pratici la Corte di Cassazione sottolinea come la ricostruzione dei ricavi ancorata ai dati emergenti dalla contabilità e basata sull’applicazione prudenziale di una media ponderata non può essere contrastata con un semplice richiamo alla formale regolarità contabile, essendo necessaria una prova contraria più efficace. In realtà il problema è a monte, divenendo necessario chiedersi se l’imprenditore conosce, in termini di ricarico e di “quantità del venduto”, quale sia il dato effettivo emergente dalla documentazione contabile. Sia sufficiente il seguente esempio: se le rimanenze non sono determinate in maniera ottimale, potrebbero risultare vendute in quantità maggiore dei prodotti rispetto al quale l’incrocio dei costi di acquisti e dei prezzi di vendita conduce a ricarichi più elevati, con riflessi “poco piacevoli” sulla potenziale ricostruzione dei ricavi. La non conoscenza di tali informazioni mina però alla base ed in maniera forte le possibilità difensive del contribuente, posto che sarà difficile contrastare una media ponderata desunta proprio dai dati contabili dichiarati, con l’implicito corollario che sarebbe necessario prima dell’attività di controllo verificare che le rimanenze siano attendibili, nonché valutare le dinamiche che influenzano il ricarico applicato.
Relativamente al costo di sponsorizzazione la posizione dei giudici è tranciante: non solo la zona territoriale in cui la stessa è avvenuta (come detto, corse di racing effettuate in paesi esteri – Croazia, Austria ed altri– distanti dall’ambito di commercializzazione – province di Bergamo e Brescia – del prodotti dell’azienda), ma anche la modalità di erogazione (logo utilizzato sulle vetture con scarsa visibilità, difficoltà di identificare correttamente l’azienda e assenza di un contatto telefonico), conducono a ritenere non ragionevole e non attendibile in termini di inerenza il costo medesimo. Si conferma pertanto il trend giurisprudenziale della medesima Suprema Corte: è indispensabile la dimostrazione del potenziale incremento della propria attività commerciale, altrimenti la sponsorizzazione è valutata non inerente ed indeducibile.