La compilazione corretta evita le contestazioni basate su presunzioni semplici. L’articolo 21 del decreto Iva non fornisce una definizione di fattura, ma elenca solo gli elementi che la compongono. Li esaminiamo in dettaglio, facendo riferimento anche alle indicazioni della prassi e della giurisprudenza.
Oggetto della prestazione
Per l’oggetto della prestazione, il comma 2, lettera g) obbliga a fornire l’indicazione della natura, qualità e quantità dei beni e servizi formanti oggetto dell’operazione. Il riferimento a «natura» e «qualità» vuol significare che le informazioni da indicare nella fattura devono essere sufficientemente dettagliate per individuare il bene o il servizio oggetto dell’operazione.
Ad esempio, non è possibile indicare i beni ceduti con i soli codici di prodotto rilevanti per il magazzino, o limitarsi a un’indicazione generica delle prestazioni effettuate quali «prestazioni di consulenza generiche diverse» o «cure odontoiatriche varie». L’utilizzo dei codici prodotto in fattura è consentito se da essi è possibile risalire alla natura e qualità dei beni o dei servizi tramite una “legenda” disponibile in calce o sul retro del documento (risoluzione ministeriale 5045229 del 10 maggio 1985).
Dettaglio delle prestazioni
Il dettaglio delle prestazioni eseguite è un requisito richiesto dal legislatore per verificare l’inerenza dei costi per il destinatario del documento. L’ufficio potrà così verificare se le spese in questione siano o meno sostenute nell’esercizio dell’attività d’impresa o professionale. L’indicazione analitica, infatti, semplifica l’attività di accertamento (risoluzione 111 del 3 maggio 1995), mentre un’indicazione generica non pone l’Agenzia delle entrate nelle condizioni di effettuare questa verifica, con il conseguente disconoscimento del diritto alla detrazione dell’Iva e dell’inerenza del costo ai fini delle imposte sui redditi per l’acquirente/committente. Si ha un’inversione dell’onere della prova a carico del destinatario della prestazione, che però potrebbe essere comunque in grado di dimostrare l’inerenza dell’onere (circostanza non semplice in presenza di una fattura ricevuta estremamente generica). Si pone così il problema se possa essere considerata corretta l’emissione di una fattura recante una descrizione generica con un rinvio, per relationem, a un altro documento quale ad esempio una lettera commerciale, un preventivo ecc. Secondo le indicazioni fornite dalla Cassazione (ordinanza n. 6203 del 13 marzo 2013) in assenza di un contratto scritto la fattura emessa per una consulenza può essere ritenuta falsa dall’Amministrazione finanziaria che, quindi, può negare la detrazione dei costi alla società. In tale ipotesi, se la fattura si riferisce a prestazioni generiche di consulenza, in mancanza di un incarico scritto tra le parti l’attività di accertamento dell’ufficio è legittima sulla base di presunzioni semplici, con conseguente onere della prova a carico del contribuente.
Gli altri elementi
Oltre all’indicazione dei beni e servizi oggetto della prestazione la fattura deve indicare gli altri elementi di cui all’articolo 21 del decreto Iva. Vanno riportati nel documento: data di emissione; numero progressivo; ditta, denominazione o ragione sociale; nome e cognome, residenza o domicilio del cedente o prestatore, del rappresentante fiscale (o della stabile organizzazione per i soggetti non residenti); numero di partita Iva; dati del soggetto cessionario/committente (codice fiscale se agisce quale “privato”), corrispettivi e altri dati per la determinazione della base imponibile, compresi quelli relativi ai beni ceduti a titolo di sconto; l’aliquota; l’ammontare dell’imposta e dell’imponibile.
Fatture pro forma
Per evitare di anticipare l’Iva dovuta prima ancora di incassare il credito il contribuente può emettere una fattura pro forma. È un documento non avente valore fiscale, la cui finalità è esclusivamente quella di far conoscere all’acquirente/committente i compensi o le somme maturate in suo favore. Il documento non deve contenere tutti gli elementi che compongono la fattura e, in particolare, non deve riportare uno specifico addebito dell’imposta. L’eventuale indicazione dell’imposta su questo documento, ancorché definito come «fattura pro forma» configurerebbe l’esercizio del diritto – dovere di rivalsa, e quindi darebbe al documento la natura di «fattura», con le relative conseguenze per gli adempimenti contabili. Questa soluzione è stata sostenuta in passato dalla Commissione tributaria centrale (sentenza del 12 maggio 1990, n. 3592).